E’ un percorso pittorico quarantennale quello che documenta la presente rassegna antologica di Albino Moro; un itinerario appartato, segreto perfino; ma costantemente perseguito dall’artista con impegno e determinato coinvolgimento esistenziale. Non a caso risale proprio al 1964 il dipinto che apre cronologicamente la mostra, un’inquadratura del paese natale — Collelongo nella valle — con l’abitato visto dai monti che serrano in alto la valle, e l’orizzonte che va aprendosi al grande pianoro del Fucino. Si tratta di un quadro ancora acerbo e tuttavia singolare nel contrasto tra la risoluzione delle pendici montane, affidata ad una pur sintetica, ma in fondo tradizionale, attitudine paesaggistica e quella dell’abitato, ottenuta mediante l’aggregazione di cubi e di prismi, a cui il pittore ha inteso assimilarlo. Qui, in questo esercizio di cubismo elementare e un po’ naif ( ma genuino ), sembra aver interessato il pittore soprattutto il motivo dell’accordo cromatico, ispirato non tanto dalla conoscenza dei celebri testi di un Albers o di un Itten, nati nella scia della straordinaria didattica bauhassiana, ma piuttosto dalla conoscenza della ricerca sul colore di Enzo Brunori, artista attivo e ben noto, anche in campo didattico a Roma, al quale Moro guardava difatti con attenzione. Il ventennio 1960/80 costituisce per Moro un periodo di sperimentazione in differenti direzioni linguistiche in mostra si espongono alcune testimonianze assai interessanti, dalla neo cubista Figura sul balcone nel portico (1965), al più tradizionale, vibrante e affidato agli accordi tonali Vaso con foglie secche (1972), alla vivacissima, sorprendente incisione su linoleum La festa dei Gioppini (1973), che sembra quasi evocare effetti di secessionismo klimtiano. In realtà, la grande svolta pittorica – ma vorrei dire, anche esistenziale – di Albino Moro, si verifica nel corso degli anni ottanta, quando l’artista inizia una nutrita serie di viaggi nel deserto sahariano.Viaggi che nulla hanno a spartire con le emozioni addomesticate dei circuiti turistici anche più eccitanti. Sono stati(occorre usare, almeno al momento, una forma verbale al passato, perché i ben noti episodi di violenza messi in atto dal fondamentalismo islamico in Algeria, hanno reso impraticabili questi itenerari sahariani) lunghi viaggi solitari, con un paio di amici coraggiosi, in fuoristrada, lungo piste carovaniere percorse solo da altri temperamenti avventurosi, con gli occhi sedotti dalle distese sconfinate di sabbia, dagli orizzonti sconfinati illimitati, dai silenzi assoluti, dalle enigmatiche presenze dei Tuareg, con i volti fasciati da sciarpe blu. Durante i suoi viaggi nel deserto, Albino Moro ha riempito molti taccuini con pastelli e acquarelli veloci, sintetici, assai attenti agli accordi cromatici catturati dalla retina , sovente affidati ad un calibrato tonalismo. Fogli che poi, magari, l’artista riprendeva e sviluppava in più ampie e organiche composizioni pittoriche, realizzate perlopiù impiegando tecniche personalissime a base di calce e terre. Ma indubbiamente le carte posseggono una freschezza che ben introduce l’osservatore alla esperienza e alla fascinazione di quei viaggi memorabili. Via via, e con speciale evidenza dal 1990 ad oggi, i dipinti di Moro sono andati perdendo l’aspetto di esplicito riscontro sul vero (tra questi occorre rammentare la coinvolgente sequenza di ritratti Tuareg dai lineamenti enigmatici e indecifrabili), per accedere ad una formulazione aniconica e visionaria, sia pure entrambe pressate, fisicamente, assediate dalla realtà fenomenica. Sia pure comprensibilmente prioritarie, le opere di argomento sahariano non sono tuttavia esclusive nell’attività del pittore abruzzese: a richiamare la sua attenzione sono soprattutto presenze e motivi offerti da mondo della natura; si pensi ad un poetico esito Attraverso il bosco (1995) o a Girasoli (2000) o ancora a Campo di pannocchie (2002), sempre dipinti ricorrendo alla particolare tecnica dell’associazione di calci e terre, capace di assicurare al dipinto una finitura arcaica ed austera; oppure a Radure nel bosco (2003), più tradizionalmente risolto ad olio su tela.Pure in questi casi, si avverte distintamente come il riscontro del dato fisico, naturale, che pure indubbiamente sussiste e si pone a scaturigine iniziale dell’opera, lascia poi il campo al lirico dispiegamento di vere e proprie sinfonie cromatiche. L’itinerario di un artista, come del resto l’esistenza di ogni essere vivente, è un viaggio: e come avevano compreso pienamente gli antichi a cominciare dai Greci, il senso vero del viaggio consiste nel ritorno. Si viaggia per ritornare, verità testimoniata in modo esemplare dall’archetipo di tutti i libri di viaggio, l’Odissea. In questa mostra di Albino Moro, ha posto un piccolo, toccante quadro che istituisce questa intera circolarità, che d’arte e di vita, Prima neve a Collelongo(2001) si riconnette idealmente all’antico dipinto dal quale ha preso l’avvio questo breve discorso sull’attività artistica di Moro che eloquentemente, dopo aver percorso, idealmente e realmente, strade così lontane, esotiche e smemoranti, ha infine avvertito l’esigenza di tornare e testimoniare l’attaccamento alla piccola patria.

Carlo Fabrizio Carli Roma Luglio 2005

Critica

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Il Deserto e le terre d’Arte

Il Sahara non poteva essere che colore, forma, spazio, mistero. Sì mistero di vita nascosta, di storia mai scritta, di natura che vi ha eletto il suo regno di dominio e di possanza.