L’ironia del visibile

Pur essendo un artista moderatamente materico garze, polveri, terre e sabbie sono i suoi materiali di scrittura, i suoi inchiostri – nelle opere di Albino Moro persiste, onestamente dissimulata, una meticolosa organizzazione formale. Qualche volta, nei suoi quadri, i punti di ripresa della realtà difficile parlare di prospettiva: piuttosto uno spazio solido, che ha una consistenza granulosa possono apparire convenzionali: un paesaggio descritto frontalmente, con angolo d’incidenza quasi piatto, come una cartolina. O una natura morta di semplice effetto, un vaso di fiori immersi in una luce abulica, che ne smorza colore e intensità. O ancora, un bosco silenzioso d’inverno, un paesaggio innevato che sfuma in tutte le impalpabili gradualità del bianco. La figura umana risulta rigorosamente esclusa dal catalogo dei suoi soggetti, almeno fino ai volti di donna Tuareg, nell’ultimissima produzione – così come la rappresentazione del movimento, se per movimento s’intende un’apprezzabile modificazione, un agire degli esseri sulla scena del mondo. Più tosto si ha un lento decadimento, che prepara il naufragio delle apparenze. Il “dono del visibile” (Merleau – Ponty) si disfa fra le dita come sabbia: resta un amalgama di luce e materia. Nelle poesie di Wallace Stevens questa condizione di attesa assume connotazioni metafisiche (V. catalogo Moro del 2005): Il cielo sembrava cosi piccolo quel giorno d’inverno/ una luce sporca su un mondo smorto/. Il “senso della distanza dal sole” su cui indugia il testo, spalanca una visione conoscitiva e morale ormai disciolta dai vincoli dell’esperienza. Ciò che si impone allo sguardo, sulla pellicola sensibile del pensiero, è un atto di pura contemplazione di radicale liberazione dalle costrizioni, dai vincoli dell’io: è ascesi, liberazione estatica, scoperta. La necessità si sconta nell’assenza dell’immaginazione”, che riconduce al senso ordinario delle cose come ad una “conoscenza inevitabili”; Interno ed esterno, nell’enigma della conoscenza, si toccano come una indecifrabile striscia di Mobius: “Non è solo l’immaginazione che aderisce alla realtà, ma anche la realtà che aderisce all’immaginazione ” Si apre qui un capitolo di fondamentale importanza per valutare la compattezza e la coerente tessitura dell’opera di Albino Moro, capitolo che inerisce sostanzialmente allo statuto di realtà della rappresentazione, al suo valore iconico, alla torsione metalinguistica cui l’artista espone il suo codice. Il percorso espressivo di Moro ha inizio negli anni 60, in corrispondenza con quel generale fenomeno di sfaldamento della compagine stilistica (Neo) realista che interessa tanto la poesia quanto la pittura italiana. Nelle scritture poetiche post naturaliste. penso particolarmente alla linea Zanzottiana, da Vocativo (1957)  alle IX Ecoghe (1962) a la Beltà (1968) Che rappresenta la testimonianza più indicativa di una ricerca assidua, di matrice anti avanguardistica, degli strumenti formali atti a rappresentare il divenire storico del paesaggio – la tensione oltre il figurativo si riversa nelle stratificazioni di un moderato plurilinguismo, nella crescente disarticolazione sintattica della frase e del verso, che si spinge fino a mimare il balbettamento o l’afasia, nel riuso di forme altamente codificate, di stilemi di estrazione culta depotenziati e come ridotti a puro elemento melodico. [analogia tra il lavoro del poeta e quello del pittore ha ragioni profonde. Una delle prime tele raccolte rappresenta un paesaggio appenninico, alcune case aggrappate ad un crinale verdeggiante. I rettangoli colorati dei tetti, e la scelta di campi cromatici uniformi, richiamano la percezione semplificata di un disegno infantile. Eppure questa apparente povertà di mezzi, questa semplificazione di linguaggio e di stile, è soltanto il residuo, la parte emergente di un processo di analisi più lungo e ramificato, che classifica i dati dell’esperienza sensibile e percettiva: l’immagine, la visione, le forme come materiale da laboratorio infinitamente manipolabile. Nella sua ultima produzione l’autore ha lungamente sollecitato l’intero spettro armonico del verde, deprivando di luce la grana dello sguardo, fino ad una opacità che confina con la notte. La pittura, ha osservato Merleau-Ponty dona esistenza visibile a ciò che la visione profana crede invisibile …(V. Catalogo 2005). [osservatore non pigramente adagiato, poserà almeno una volta lo sguardo sulle cornici che delimitano la tela. Sono anche queste opera dell’autore, che si compiace di lavorare artigianalmente i suoi “legni”. Di tanto in tanto inventa forme nuove, come per la magnifica serie di acquarelli su garza di soggetti sahariano: l’abitato di Djanet, in Algeria, un’oasi che quasi affoga nella foschia del giorno, dune polverose e palme spiumate dal vento. In questi disegni le atmosfere sono insolitamente rarefatte e chiare, le vibrazioni cromatiche emanano riflessi di cristallo, Le “scatole” espositive che contornano la piccola tela e la spingono in aggetto, riproducono una sorta di minuscolo, infantile televisore fisso su una sola immagine. La cura che il pittore pone nei contorni del quadro, è essa stessa una sommessa clownerie, un gioco di scatole cinesi, una rifrazione della parola per evidenziare la natura illusoria dei segni. Questa sordina che si comunica al contenuto della rappresentazione, questa ricerca di toni neutri, risponde ad un’attitudine alla visione non lirica ne smemorante, ma attiva, lucida, criticamente consapevole, con scatti lievi di ironia. Chi, dopo Van Gogh, dipingerebbe i girasoli? Albino Moro li immerge in una luce così torpida, da apparire come dal fondo di uno specchio d’acqua, e il minuzioso arabesco del disegno, una linea che mentre si scrive sembra cancellarsi, suscitava l’ammirazione del maestro Elio Di Blasio. Se contemplare vuol dire lasciarsi assorbire dalla natura dell’oggetto, smarrirsi nella sua porosità, il lavoro del pittore opera piuttosto sui resti di questo processo. Predilige il magma organico, ciò che diviene materia dopo la digestione del male.

Claudio Perolino

Critica

Albino è nato artista e sebbene questo, è riuscito ad essere uomo che medita, parco e sottile e moderato e gentile. Non condizionato o complice di tendenze intellettualistiche dell’ultimo momento…

Il Deserto e le terre d’Arte

Il Sahara non poteva essere che colore, forma, spazio, mistero. Sì mistero di vita nascosta, di storia mai scritta, di natura che vi ha eletto il suo regno di dominio e di possanza.